Con il provvedimento in commento il TAR Lazio, a seguito del ricorso presentato da RG&Partners – nella persona degli avv.ti: Biagio Riccio e Danilo Griffo – sospende la provvisoria esecutività della sanzione comminata ai danni dell’impresa assistita dallo Studio, per il valore di circa 162.000 Euro.

Tale sanzione veniva originariamente applicata sulla base dell’asserita sussistenza di un ‘cartello’ restrittivo della concorrenza che avrebbe interessato una copiosa cordata di imprese.

In sede cautelare si è eccepito come il criterio di quantificazione della multa mostrasse segni di incongruità, essendo sproporzionato rispetto alle dimensioni dell’azienda assistita ed alla sua partecipazione alle relazioni ritenute, dall’Autorità, lesive della concorrenza.

Un vizio del potere amministrativo, dunque, palesatosi già nella sfera della cd. discrezionalità tecnica (scelta del criterio di quantificazione della sanzione), prima ancora che nell’alveo della cd. discrezionalità amministrativa (momento in cui la P.A. decide se applicare o meno la condanna).

Il pericolo dell’applicazione di una multa sproporzionata, è stato scritto e sostenuto nella difesa cautelare di RG&Partners, è infatti quello che lo stesso intervento dell’AGCM possa divenire lesivo della concorrenza, contraddicendo perciò i fini per i quali sorge tale Autorità.

Difatti, l’azienda incisa da una ingiusta e non sopportabile censura pecuniaria, facilmente potrebbe non resistere sul mercato, con il rischio di scomparire dallo stesso e compromettere così la concorrenza per motivi, però, alieni al mercato stesso.

Tali argomentazioni sono state ritenute fondate dal Collegio, il quale, come si evince dal tenore dell’ordinanza in parola, rinviando al successivo merito ogni questione relativa al possibile annullamento integrale della sanzione, ha inteso cautelarmente sospendere la stessa nella misura di circa 162.000 Euro.

Tale esito ha dunque permesso all’impresa assistita di restare sul mercato, non dovendo soggiacere al peso di un esborso pecuniario tale da indurla alla liquidazione o peggio al fallimento.    

SOSPENSIONE-ANTITRUST-TAR-LAZIO

Corte Appello Brescia sent. 946/15

Con la sentenza in commento la Corte di Appello di Brescia ha revocato il fallimento  a seguito di reclamo proposto ex art. 18 L.F. dall’ Avv. Biagio Riccio, su incarico di uno dei soci della fallita, averso la sentenza dichiarativa di fallimento emessa dal Tribunale di Cremona.

In particolare il fallimento era stato richiesto “in proprio” dal liquidatore della società nonostante, secondo uno dei soci della srl, avesse sin da subito contestato sia la legittimità della messa in liquidazione (e quindi della nomina del liquidatore) sia la sussistenza dello stato di decozione.

La Corte d’Appello ha accolto le istanza dei legali incaricati dal socio della società illegittimamente dichiarata fallita soffermandosi sulla preliminare eccezione sollevata in riferimento alla “legittimazione di Chi propone l’istanza “in proprio” , vale a dire sulla titolarità, in capo all’istante, del potere di rappresentanza.”

La Corte ha chiarito che, a prescindere dalla dibattuta questione sulla applicabilità dell’ art. 2367 c.c. alle srl, è necessario verificare preliminarmente l’ esistenza stessa (non già la mera validità) di una delibera riferibile alla volontà dei soci ed adottata nell’ ambito di un’assemblea regolarmente convocata.

Nella fattispecie la nomina del liquidatore era da intendersi tamquam non esset in quanto dall’istruttoria non era emersa alcuna valida convocazione dell’ assemblea per deliberare la messa in liquidazione e, quindi, la nomina del liquidatore stesso.

La sentenza ha dunque stigmatizzato il principio secondo cui, in ipotesi di istanza di fallimento presentata “in proprio”, è necessaria la previa e rigorosa verifica della titolarità del soggetto che propone la domanda di fallimento onde verificare la sussistenza dei necessari poteri di rappresentanza in capo allo stesso tenuto conto degli effetti pregiudizievoli che derivano dalla dichiarazione di fallimento per l’intera compagine societaria.

 

 

Il provvedimento in commento è stato reso a seguito di ricorso proposto dall’ Avv.Biagio Riccio al fine di ottenere la sospensione delle operazioni di vendita del bene staggito.

In particolare, il procuratore dell’ esecutato, è ricorso al giudice dell’ esecuzione sollecitandone il potere discrezionale di  sospensione ex art. 586 c.p.c. allorquando vengano in rilievo, prima dell’ aggiudicazione (o anche prima della vendita), circostanze erroneamente apprezzate dal giudice anche se note prima della proposizione dell’ istanza.

Dalla disamina degli atti erano infatti emerse delle evidenti carenze tecniche e valutative che avevano inficiato, in danno dell’ esecutato, le risultanze della ctu di stima del bene staggito.

Il G.E., accogliendo il ricorso, ha dunque sospeso le operazioni di vendita fissate a distanza di poco più di una settimana, evitando una vendita all’asta che sarebbe stata gravemente pregiudizievole ed ingiusta per la parte esecutata.

Pregevole è stata la motivazione che ha condotto il magistrato ad adottare il provvedimento de quo.

In particolare, l’Avv. Riccio ha evidenziato che, secondo la migliore giurisprudenza “può essere riformulato e riconsiderato il prezzo d’asta anche sulla base di elementi preesistenti non considerati: tra questi si individua un errore valutativo commesso dall’esperto( si veda in parte motiva Tribunale di Napoli 19.02.1994).”

La stessa Cassazione ha precisato che “il parametro rispetto al quale deve essere espresso il giudizio di notevole inferiorità del prezzo in rapporto a quello giusto di cui al novellato art.586 cpc è  il valore oggettivo dell’immobile al momento della vendita derivante da circostanze note anche prima della formazione dell’ordinanza di vendita e che non siano state affatto prese in considerazione dallo stesso giudice oppure all’epoca erroneamente apprezzate (Cass.18.04.2003 n.6269).

Con percorso argomentativo assolutamente convincente il procuratore della parte esecutata ha anche chiarito, a livello esegetico, che il disposto dell’art. 586 c.p.c. trae origine dall’art.108 della legge fallimentare per cui :

  1. l’istanza per la revisione del prezzo, sproporzionato e notevolmente inferiore a quello giusto e può essere proposta anche prima dell’aggiudicazione;
  2. non si rientra nell’ambito dell’opposizione agli atti esecutivi,ma
  3. nel potere del Giudice dell’esecuzione,quale Dirigente del processo esecutivo e dunque come tale munito della competenza necessaria per consentire che il processo approdi al risultato più esaustivo per tutti(ceto creditorio e debitore).
  4. In tal caso è indispensabile solo una mera istanza come quella odierna.
  5. Tra i motivi di revoca dell’ordinanza di vendita rientra anche quello di errata determinazione del prezzo di incanto, stabilito in modo sbagliato dal perito per assoluta incompetenza o per non aver attribuito il dovuto risalto al valore della proprietà staggita(nella specie agli interni del palazzo nobiliare, in modo particolare ai dipinti di Eric Job ed al bellissimo e prezioso giardino).
  6. Si deve ritenere che i beni de quibus siano da identificarsi come Beni Culturali e perciò ad essi si applica il Codice dei Beni culturali,di cui al decreto legislativo 42 del 22.01.2004.
  7. Tale circostanza implica che non può procedersi ad esecuzione forzata, per consentire che si avvii il relativo processo di inglobamento nei beni dello Stato.

Infine va rimarcato il pertinente richiamo alla recente riforma del codice di procedura civile che ha modificato radicalmente l’art.568 cpc (così come modificato dalla legge 6/08/2015 n.132 che ha convertito il D.L del 27/06/2015 n.83,in vigore dal 27/6/2015).per cui il Giudice,per la determinazione del valore di mercato,deve sentire il Ctu ed anche le parti.

Il criterio assunto dal legislatore è dunque quello del valore di mercato del bene immobile.

Tale principio costituisce pertanto ulteriore motivo a sostegno della necessità di sospendere la procedura esecutiva ogniqualvolta il prezzo del bene staggito risulti sproporzionato rispetto al valore di mercato.

L’ordinanza in commento è stata resa dal Tribunale di Varese a seguito della proposizione di un ricorso in opposizione all’esecuzione immobiliare, intrapresa sulla base di un contratto di mutuo, nella quale la banca procedente aveva spiegato un intervento fondato su altro contratto di finanziamento.

In particolare il legale del mutuatario ha chiesto, ai sensi dell’art. 624 c.p.c., la sospensione dell’ esecuzione-concessa dal giudicante- eccependo l’usurarietà ab origine di entrambi i contratti e, quindi, la nullità degli stessi.

Ed infatti, dalla interpretazione delle clausole contrattuali è emerso che, all’interno dei contratti di finanziamento, la banca aveva pattiziamente previsto l’applicazione degli interessi moratori non in sostituzione ma in aggiunta a quelli corrispettivi in ipotesi di inadempimento da parte del cliente.

Sposando la difesa articolata dal ricorrente il G.E. della seconda sezione civile del Tribunale di Varese ha tra l’altro sancito, con convincente ed articolata motivazione, i seguenti principi:

  1. nelle procedure in cui si annuncia (o è stata attivata) l’ espropriazione forzata della casa di abitazione del debitore il periculum in mora è in re ipsa”;
  2. è innegabile che nel concetto di interessi usurai convenuti “a qualunque titolo” debba rientrare anche quel “vantaggio” che può derivare dalla pattuizione di interessi moratori usurari;
  3. dalla interpretazione dei contratti è emerso che l’istituto ha “testualmente pattuito, sia pure per la fase patologica dei detti rapporti” l’ applicazione degli interessi di mora in aggiunta a quelli corrispettivi.

L’ultimo principio affermato rappresenta una vera e propria rivoluzione copernicana in subjecta materia in quanto il Tribunale, interpretando correttamente le clausole contrattuali , conferma –in linea con gli articolati motivi di ricorso- la chiara volontà della banca nel “promettere”, in caso di inadempimento del cliente, l’ applicazione additiva e non sostitutiva degli interessi moratori sull’intera rata comprensiva anche degli interessi corrispettivi.

Il Tribunale ha applicato in maniera impeccabile la vigente normativa senza lasciarsi andare, come invece troppo spesso accade, a “interpretazioni creative” volte a forzare –a tutto vantaggio degli istituti di credito- la chiara lettera della legge che prevede, ai fini della verifica del superamento del “tasso soglia”, il calcolo di tutte le competenze e remunerazioni previste ex contractu a “qualunque titolo” convenute ed “indipendentemente dal momento del loro pagamento”.

 

Data: 25/07/2015

Procedura esecutiva n. 404/2012 R.G. Esecuzioni

ESECUZIONE IMMOBILIARE – SOSPENSIONE DELL’ ESECUZIONE FONDATA SU TITOLO DI FORMAZIONE GIUDIZIALE PASSATO IN GIUDICATO – NULLITA’ INTERESSI USURAI – POTERE “ESTERNO” DEL G.E. – PERICULUM “IN RE IPSA”.

 L’ordinanza in commento conferma un orientamento innovativo oggetto di precedenti pronunce di merito (Trib. Monza ord. 07.07.2015) che stigmatizzano ed amplificano il cd. “potere esterno” del giudice dell’ esecuzione allorquando venga attivato in executivis un titolo nullo, per violazione di norma imperative, anche se di formazione giudiziale.

In particolare, la questione scrutinata dal magistrato, nasce da una opposizione all’ esecuzione, con contestuale istanza di sospensione, proposta contro una procedura esecutiva fondata su decreto ingiuntivo non opposto.

Il Tribunale, pertanto, in sede “cautelare”, si sofferma sul preliminare aspetto afferente “la possibilità di proporre opposizione e di sospendere l’esecuzione intrapresa in forza di un titolo esecutivo passato in giudicato” dando al quesito –all’esito di articolata ed attenta motivazione- risposta affermativa.

Il giudice, ripercorrendo un complesso iter logico-giuridico, chiarisce che “l’unico profilo ancora deducibile in presenza di un decreto ingiuntivo passato in giudicato è quello relativo alla lamentata pretesa di interessi usurari” e ciò stante il giudizio di riprovevolezza che il nostro ordinamento riserva a tale tipo di condotta e che non consente anzi, addirittura “impone di non dar corso alla dazione di interessi usurari, neppure sulla base di un titolo passato in giudizato” (Trib. Pordenone sent. 07.03.12).

In tale ipotesi, continua il giusdicente, non viene corrotto il principio di intangibilità ed immutabilità del giudicato in quanto vengono “in evidenza fatti sopravvenuti alla formazione del contratto connessi alla fluttuazione imprevedibile dei tassi”  per cui in riferimento agli interessi che superano la soglia legale il creditore non avrà alcun diritto ad eseguire il titolo (Trib. Reggio Calabria sent. 04.02.04)

Anche in riferimento al periculum in mora l’ordinanza di segnala nell’ affermare che, detto requisito, è “in re ipsa” dando, anche in questo caso, continuità ad un orientamento giurisprudenziale inaugurato dai legali dello Studio Riccio (cfr. Tribunale di Varese ord. 21.04.2015).